Zefiro: La voce controvento

7 ottobre: ciò che il mondo ha scordato

A due anni dalla tragedia il ricordo è sbiadito per le masse, ma vive in chi sa pensare.

Il giorno in cui è morta l’umanità

di Samuel Botti

A due anni dal massacro del 7 ottobre echeggia una sola parola nelle menti occidentali: silenzio.

Il sapore amaro di quella mattinata è stato sin da subito ricoperto da un problema ben più rilevante per l’opinione pubblica mondiale, e cioè che gli israeliani uccidono i palestinesi. L’attacco terroristico e l’invasione di Hamas nelle terre israeliane non solo sono stati tra i momenti più duri per lo Stato di Israele, ma l’inizio della condanna mediatica da parte di tutti quei paesi che, volontariamente e chi invece vittima dell’effetto gregge, hanno riversato il loro odio nei confronti di una guerra. Una guerra che tutti noi avremmo combattuto con gli stessi mezzi.

Cinquemila razzi Qassam sorvolano i cieli israeliani alle sei e trenta del mattino; chi è sveglio vede il cielo illuminarsi come se fosse giorno e corre ai ripari dopo le sirene antiaeree, mentre tra chi dorme ci sono diverse persone che non si sveglieranno più.
Ma i razzi sono solo un diversivo, Hamas non riesce a condurre un’offensiva come un “organizzazione politica e militare”, deve tirare fuori a tutti costi la sua vera natura, quella di jihadisti che hanno il compito di cancellare Israele e gli ebrei dalla faccia della terra. Diversi miliziani sconfinano dalla Striscia di Gaza con l’ausilio di pick-up, barche e deltaplani a motore artigianali e invadono il kibbutz di Nir’Am, a sud di Sderot. Grazie alle valorosa gesta di Inbal-Rabin Liebermann, coordinatrice della sicurezza del villaggio, che dopo aver capito preventivamente la gravità della situazione ha da subito mobilitato gli abitanti e ucciso 25 miliziani di Hamas. Nir’Am e Ein HaBesor sono stati gli unici due kibbutzim a non subire perdite civili israeliane.

Nel frattempo, inizia il massacro. Il Supernova music festival diventa teatro della più grande strage di civili di quel giorno. Mentre i giovani stavano ancora ballando dalla sera prima, ecco che arriva il terrore con la falce e circonda il campo del festival: 364 civili uccisi e 40 ostaggi, la cui unica colpa era quella di essere ebrei e di trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

La mattanza

Tra villaggi, kibbutzim, festival e basi militari le vittime israeliane sono circa 1200: 859 le vittime civili, 278 i soldati caduti (307 secondo altre fonti) e 57 i membri delle forze dell’ordine che hanno perso la vita. Gli ostaggi catturati sono invece 250. Secondo i dati, i miliziani che hanno invaso Israele sono stati più di 6mila.
Ma il diavolo sta nei dettagli, e Hamas mostra al mondo qual è la differenza tra un atto di resistenza e un attacco terroristico contro i kuffar, gli infedeli per i musulmani. Muniti di GoPro come bodycam, i terroristi hanno filmato diverse delle atrocità commesse durante l’inferno di quella mattinata. Secondo alcuni rapporti che hanno testimoniato tali atti disumani risulterebbe che diverse donne israeliane, prima di essere freddate o decapitate, siano state stuprate in gruppo, spesso mentre i familiari erano costretti a guardare. Dopodiché, alcune di loro sono state mutilate e private di seno e di organi riproduttivi, o ancora l’uso di armi come coltelli e granate inseriti nelle vagine delle vittime. La stessa sorte di mutilazione non ha risparmiato né gli uomini, né i bambini.

Ci sono poi i festeggiamenti, da parte dei miliziani, della macabra opera compiuta; Mahmoud Afana, eliminato dall’Idf poco tempo fa, cercava così approvazione dai genitori: «Vi parlo dal telefono di una donna ebrea. Ho ucciso lei e suo marito. Padre, dieci con le mie mani, ne ho uccisi dieci. Il loro sangue è sulle mie mani. Chiama la mamma. Vostro figlio ha ammazzato ebrei. Mamma, tuo figlio è un eroe. Vai a testa alta, padre».

Negli ultimi due anni sempre più spesso viene citata, a sproposito, la grande opera di Hannah Arendt, La banalità del male. L’autrice scriveva che il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti.
Il 7 ottobre non deve essere dimenticato, né sminuito, né usato come pretesto per attaccare Israele: deve essere un momento per ricordarci che lì, lontano da noi, in quel giorno, un pezzo di Occidente è morto per sempre.

2 anni di dolore e odio

di Edoardo Di Felice

Da quel maledetto 7 ottobre 2023, da quel disegno genocidario sono passati 751 giorni. Da allora ne sono cambiate di cose. Da quando l’ex Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, dimessosi il 2 gennaio di quest’anno, ordina la chiusura totale della Striscia e il razionamento di qualsiasi cosa in entrata e in uscita. Da quando il cielo si è aperto su strade, case, scuole, ospedali. Vite umane.

Operazione Spade di Ferro, così è stata chiamata dallo Stato Maggiore dell’IDF.
Il carnaio che si è sviluppato è stato inevitabile. L’enclave sulla costa del Mediterraneo misura 365 chilometri quadrati e ha una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti. Quasi seimila anime per chilometro quadrato. Senza bunker antiaerei, senza uniformi che rendano distinguibile il miliziano di Hamas rispetto al civile padre di famiglia.
Una guerra sporca, infame, disonesta, che colpisce civili indifesi, intrappolati sotto le bombe ma anche dai loro governanti, che a gran voce non fanno mistero di beneficiare della morte di quante più persone possibili.

Il mondo ha ascoltato ogni giorno il bollettino di guerra, ha osservato le strazianti immagini che testimoniano le sofferenze e le atrocità. L’indignazione ha fatto montare in tutto il pianeta la rabbia. Una situazione complessa e articolata come quella Israelo-Palestinese è stata nella maggior parte dei casi strumentalizzata a fini politici. Tutti, o quasi, si sono scordati della mattanza del 7 ottobre. La sinistra militante ha riversato odio, disinformazione e pregiudizio non tanto sul Governo Netanyahu, ma sul popolo israeliano tutto. L’unico stato ebraico al mondo ha subito, in questi 24 mesi, un’attenzione mediatica assolutamente sproporzionata alla situazione in corso. È stato posto sotto la lente di ingrandimento di qualsiasi opinionista da salotto, di qualsiasi influencer in cerca di visibilità, di qualunque personaggio dello spettacolo in declino.

La sua storia di memoria, di ancora sicura contro le persecuzioni, il miracolo vivente di un popolo che dopo duemila anni di esilio ritrova la propria indipendenza nella sua terra d’origine calpestata in maniera vile da chi, senza alcun rispetto, arriva ad equiparare chi la Shoah l’ha subita a chi l’ha compiuta. L’idea stessa di convivenza tra i due popoli, la cosiddetta “Soluzione dei due Stati”, non ha quasi trovato posto nelle iniziative ovunque sorte a solidarietà dei bambini di Gaza. “Dal fiume al mare”, ossia la creazione di un unico stato palestinese che occupi la totalità della terra tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, negando perciò Israele, diventa un leit motif di deumanizzazione dell’ebreo “sionista”. Specie tra le nuove generazioni. Si parla di libertà, democrazia, diritti…ma si definisce movimento di resistenza un manipolo di assassini islamisti che opprimono la propria gente e il cui disegno prevede la distruzione di qualsiasi forma di libertà, di democrazia, di diritto.

L’eterna accusa del sangue

L’antisemitismo, ovunque, ha subito un’impennata senza eguali dal 1938. Mascherato da odio verso Israele, beninteso. Atti condannati velocemente e senza la dovuta attenzione mediatica, spesso con un velato giustificazionismo, da chi comunque ignora le altre guerre in corso oggi nel mondo. Yemen, Sudan, Siria, valle del Tigray in Etiopia, Myanmar, Congo. Tutte aree martoriate dalla sofferenza e dalla devastazione. Luoghi con veri genocidi, riconosciuti.
Situazioni spesso più drammatiche di quella a Gaza. A nessuno importa.
Non ci sono le democrazie occidentali da incolpare e da tacciare come “imperialiste”.

L’accusa di genocidio, infamante, mossa dal Sudafrica contro Israele, a nemmeno tre mesi dall’inizio della crisi, è stata uno slogan potente. Il popolo che ha subito un Olocausto ora ne compie un altro. Esiste marketing politico più efficace? Ritwittato e condiviso a livello internazionale fino a diventare verità assoluta prima ancora di una sentenza giudiziaria. Le bugie e le inesattezze che sono state dette a riguardo meritano un articolo a parte.

Gerusalemme ha vinto la guerra sul campo: è stato sgominato gran parte di Hamas a Gaza, giustiziati i suoi leader. Distrutte le milizie sciite di Hezbollah. Rovesciato il regime di Assad in Siria. Umiliato l’Iran in avventate quanto spettacolari operazioni di deterrenza col supporto USA. L“Asse della Resistenza” non esiste quasi più.
Ma l’odio viscerale verso la bandiera con la stella di David rimane. Israele ha perso la guerra della comunicazione. Un fronte più importante, sul lungo periodo, di quello tattico-strategico. Il supporto della comunità internazionale è a rischio molto serio.
Di questo è responsabile la narrazione occidentale, asservita alle direttive qatariote e piegata a un veicolamento di notizie a senso unico, quanto il governo di Benjamin Netanyahu.

Uomo di scarsa visione, bugiardo, corrotto, che antepone la propria smania di potere e la propria sopravvivenza politica (e giudiziaria) ad una risoluzione concreta della situazione. Costretto ad assecondare i ricatti dei fanatici religiosi come Smotrich e Ben Gvir, rappresentanti delle frange più razziste e odiose del movimento dei coloni messianici in Cisgiordania, che ogni liberale deve condannare con la stessa forza con la quale condanna il radicalismo islamico. Netanyahu, che ha fatto della sicurezza e della tutela della sua gente dal terrorismo il proprio mantra elettorale, non è riuscito ad evitare il disastro che si è verificato.

La sua colpa, urlata da milioni di suoi connazionali che ogni giorno riempiono Tel Aviv non la cancelleranno 20 operazioni militari contro l’Iran. Israele, e del resto i palestinesi, hanno bisogno di meglio. E ne hanno bisogno al più presto.

Un futuro incerto: speranze diplomatiche e tensioni sul campo

di Dario Saralvo

Il periodo che ha preceduto il terribile attacco avvenuto la mattina del 7 ottobre 2023 è caratterizzato dalla presenza di due scenari paralleli che si stanno svolgendo attualmente in luoghi diversi.

Uno scenario riguarda i negoziati intrapresi da Israele e Hamas, che dialogano attraverso Stati Uniti d’America e stati arabi, con la speranza di giungere a un accordo che porti a una pace giusta e sicura per entrambe le fazioni coinvolte. L’altro è ambientato nella Striscia di Gaza, dove nel frattempo i soldati dell’IDF e i tagliagole di Hamas si fronteggiano in modo ravvicinato. I negoziati, che in un primo momento si potevano considerare instabili per via della mancanza della volontà delle fazioni estreme di ambo gli schieramenti di trovare un punto d’incontro serio, da due mesi a questa parte hanno raggiunto obiettivi notevoli e concreti grazie al piano di pace, basato su quattro punti fondamentali e presentato dalla Casa Bianca sotto l’egida del presidente Donald Trump.

Il primo punto riguarda il rilascio di tutti i 48 ostaggi rimanenti entro le 72 ore dal cessate il fuoco, in cambio di 2.000 terroristi di Hamas che attualmente risultano carcerati all’interno degli istituti penitenziari israeliani. Il secondo punto prevede la cessione da parte di Hamas delle armi attualmente stipate in scuole e ospedali e del potere, che dovrebbe passare nelle mani di un governo transitorio di tecnocrati palestinesi, dotato di una forza di stabilizzazione internazionale guidata dai paesi occidentali e della Lega Araba. Infine, il terzo e il quarto punto sono basati sul ritiro delle forze israeliane da Gaza attraverso fasi graduali, con una zona cuscinetto al confine presidiata dall’IDF, e sulla ricostruzione totale della Striscia tramite l’aiuto di paesi arabi e occidentali, che una volta completata porterà all’inizio del processo di autodeterminazione palestinese.

Le reazioni da parte dei diretti interessati nella questione e dei terzi non prevedono un miglioramento, dato che Hamas, al contrario del democratico stato d’Israele, secondo fonti attendibili non avrebbe accettato il piano a causa di alcune perplessità riguardo alla consegna delle armi e alla cessione del proprio potere a una leadership palestinese più democratica e aperta al dialogo con Israele e con l’Occidente. Il presidente Trump e il segretario di Stato Marco Rubio hanno spinto per un accordo ancora più rapido e una conferma sul framework per gli ostaggi, mentre il Qatar e l’Egitto testano la serietà di Hamas attraverso pressioni su un eventuale ricostruzione con fondi arabi.

Per quanto riguarda invece il secondo scenario, ossia la prospettiva sul campo di battaglia, Israele ha abbandonato il 4 ottobre 2025 la tattica offensiva adottata a seguito del grave attacco, per intraprendere una serie di azioni più difensive attraverso l’utilizzo di caccia di quinta generazione F-35 per compiere degli strikes più mirati, succeduti da lanci aerei di ordini di evacuazione della popolazione civile sulla città di Gaza City, da cui Hamas continua a lanciare razzi verso i centri abitati di Tel Aviv e il centro d’Israele. Il gruppo terroristico, ormai fortunatamente indebolito, sta utilizzando la tattica dei suicide bombers, che prevede l’utilizzo di kamikaze contro i soldati israeliani e mezzi blindati.

Scenari di evoluzione tra ottimismo cauto e rischi di impasse

Guardando al futuro, l’evoluzione della situazione appare appesa a un filo sottile, con due traiettorie principali che potrebbero delinearsi nei prossimi mesi, influenzate sia dai progressi diplomatici che dalla dinamica sul terreno. In primo luogo, uno scenario ottimistico potrebbe materializzarsi entro la fine del 2025, se i negoziati di Sharm el-Sheikh (in corso dal 6 ottobre) riuscissero a superare gli ostacoli sul disarmo di Hamas. Grazie alla pressione congiunta di Washington, Doha e Il Cairo, il “Piano Trump” potrebbe essere ratificato in una prima fase entro novembre, portando al rilascio immediato degli ostaggi e a un cessate il fuoco formale.

Questo aprirebbe la porta a un ritiro graduale dell’IDF, con la zona cuscinetto che fungerebbe da garante della sicurezza israeliana, mentre i fondi arabi (stimati in miliardi di dollari da Arabia Saudita e Emirati) inizierebbero la ricostruzione di Gaza. In tale contesto, Hamas – ulteriormente indebolito dalla perdita di leader chiave come Yahya Sinwar – potrebbe cedere il passo a un governo transitorio, favorendo un dialogo inter-palestinese che includa Fatah e altre fazioni moderate. Sul campo, gli strikes mirati verrebbero ridotti al minimo, permettendo l’afflusso di aiuti umanitari su vasta scala e riducendo la fame catastrofica che affligge oltre un milione di civili. Israele, dal canto suo, vedrebbe un calo delle minacce missilistiche, consentendo una normalizzazione delle relazioni regionali, come ipotizzato negli Accordi di Abramo ampliati.

Tuttavia, un secondo scenario, più cupo e realistico secondo analisti come quelli del Council on Foreign Relations, prevede un impasse prolungato che potrebbe degenerare in una nuova escalation entro il primo trimestre del 2026. Se Hamas, spinto dalle sue ali radicali, rifiuterà categoricamente il disarmo (come suggerito dalle recenti dichiarazioni del leader Khalil al-Hayya), i colloqui potrebbero arenarsi, spingendo Israele a riprendere operazioni offensive su larga scala. L’IDF, già posizionata con divisioni corazzate intorno a Gaza City, potrebbe lanciare un’assalto finale per smantellare i tunnel residui di Hamas, con il rischio di ulteriori perdite civili e accuse internazionali di “proporzionalità eccessiva”. In questo caso, i suicide bombers e i razzi sporadici di Hamas intensificherebbero le incursioni, prolungando lo stallo umanitario: la fame a Gaza City potrebbe raggiungere livelli epidemici, con l’ONU che avverte di una “crisi irreversibile” per 300.000 sfollati. A livello diplomatico, un fallimento del piano Trump minerebbe la credibilità degli USA come mediatore, aprendo spazio a iniziative alternative come una conferenza egiziana per l’unità palestinese, ma senza garanzie di successo.

L’Europa e il Vaticano, già critici, potrebbero imporre sanzioni simboliche a Israele, mentre i paesi arabi moderati si ritirerebbero dal sostegno, isolando ulteriormente Netanyahu. In definitiva, l’evoluzione dipenderà dalla “volontà politica” (come l’ha definita il premier qatariota) di compromessi reali. Un accordo tempestivo non solo salverebbe vite, ma potrebbe inaugurare un’era di coesistenza, con Gaza come ponte verso uno stato palestinese demilitarizzato. Al contrario, un fallimento perpetuerebbe il ciclo di violenza, ricordandoci che due anni dopo il 7 ottobre, la pace resta un obiettivo fragile, ma non impossibile, se la diplomazia prevarrà sulle armi. Solo il tempo, e le scelte delle parti, riveleranno quale strada verrà percorsa. Ma nel frattempo, l’unica parola che sento di dover proferire in quanto ebreo occidentale è pace tra le parti coinvolte nel conflitto e sicurezza, sia per i civili israeliani che palestinesi, ma soprattutto per i 48 ostaggi attualmente ancora in mano ai terroristi palestinesi.

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